Toti Carpentieri
L’anima più sottile delle cose si svela attraverso i segni
In occasione de “Le lune del Barocco”, la mostra che Francesca Mele (Novoli 1964) teneva presso il Castello Carlo V a Lecce nel 1998, avevamo manifestato alcune riflessioni non solo sull’iteratività dell’immagine muliebre nelle sue opere, quant’anche su quelle considerazioni che Giovanni Invitto faceva nel suo testo in catalogo parlando di barocco e di liberty e di quel mescolarli insieme all’interno del mito, tra citazioni e riferimenti.
E infatti, le figure della giovane artista salentina appartengono ad un preciso universo femminile legato più alla sa (sovente popolata da fate e da streghe) che alla realtà, con quel loro manifestarsi allusivo e metaforico al tempo medesimo, in cui il significante e il significato si susseguono e si sovrappongono, in un gioco di memorie scandite e declinate tra immagini ed immaginazione.
Quale, infatti, il significato della ricorrente presenza di un rapace ad ali spiegate in molte sue opere, anche degli ultimi anni Novanta, e il continuo riferimento al volo (l’ippogrifo) oggetto nel 1996 di una specifica attenzione partita dalla suggestione dell’Ariosto, ma ben oltre l’illustrazione in quanto tale) se non quello di un desiderio – a lungo accarezzato, forse di libertà? E quale quello che Francesca Mele conferisce alla luna-simbolo referenziale dell’essere donna – anch’essa protagonista e comprimaria di moltissime sue opere?
E sui fondi non certo illeggibili, ma quanto mai e volutamente confusi, ecco emergere fisionomie
percepibili (alcune note, altre ignote), piene di fascino e di mistero.
Questo vuol dire che dietro un’apparente immediatezza, le opere di Francesca Mele nascono e si articolano su complessità d’ordine psicologico che solo per il tramite della pittura (della sua costruzione, della sua manualità e dei suoi riferimenti) riescono ad affiorare dalla propria memoria.
Anche in questa “quinta stagione” nella quale “ il gioco dell’arte” va, a nostro avviso, ben oltre il significato di quella doppia e coinvolgente presenza femminile – l’una bendata, l’altra ad occhi aperti – che traccia come una sorta di scia, pervenendo ad una nuova soluzione impaginativa dell’opera nella sovrapposizione dei piani pittorici ma anche temporali, e in un rincorrersi di memorie che ripropongono la riconoscibile e intrigante salentinità barocca quale spazio scenico su cui impaginare i volti delicati e le storie. Ancora una volta in quella sorta di sequenza/scansione che evidenzia lo scorrere stesso del tempo: quello della pittrice, ma anche quello che appartiene alla totalità degli individui, lasciando così forme e figure, e legandosi alla pura cromaticità, alla sua alternanza ed alla sua molteplice significazione. A riprova quasi di quanto affermato dalla stessa artista quando parla di “sguardo leggero sul mondo”, ma anche di “un tentativo, forse, di riscattare l’esistenza attraverso un filtro che lasci passare solo l’anima più sottile delle cose”, svelando così tra segni e misteri, il suo contenuto più segreto.
La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 settembre 2003
Articolo inserito nella rubrica I PROTAGONISTI – Artisti salentini del XX secolo di Toti Carpentieri
52- Francesca Mele (Novoli 1964) tra immagini e immaginazione, tra fate, streghe e memoria