di Francesco Libetta
Francesca Mele è salentina. Nella sua terra non c’è stato Rinascimento; ella ha respirato pittura alla greca fin da bambina. La lingua misteriosa deli emblemi le è naturale. Le mute presenze femminili, dai capelli fulvi come l’oro; gli antiqui cavalier; gli spazi delle ampie tele sinfoniali….
In una recuperata lingua precedente al disastro di Babele, dove la sinestesia non è indizio del problema di organizzazione e coordinamento sensoriale, dove sentiamo una vera ossessione per elementi che hanno solo il senso che noi scegliamo di dare loro (il mondo non è solo una scacchiera : è un magazzino di scene, dietro le quinte), Francesca Mele non teme di presentarci i suoi enigmi, spesso senza suggerirne soluzioni. Le sue ampie tele conservano presenze che a volte sono come parole isolate (car le mot, qu’on le sache, est un étre vivant….) e a volte lasciano lo spettatore lì, solo con quelle superfici piene di schiumose vibrazioni che ricordano quei test in cui ci si può vedere ciò che si vuole trovare. Descritti con la massima accuratezza, o appena accennati e forse involontariamente, noi vediamo fantasmi ( non è come voler notare un moto dell’animo?). Come nell’apparente citazione di Picasso o Braques (quel violino sfiorito come una rosa apertasi al calore), in realtà si mantiene la tridimensionalità tradizionale.
… Il silenzio dei personaggi muti, delle ampie stanze vuote, degli strumenti chiusi o muti o sfioriti, prelude al suono primigenio dell’ispirazione.
La musica impone i tempi della propria percezione – percorsi che in un quadro sono solo congetturali.
Ma resta l’unica differenza.