di Antonio Errico
Stanze che non hanno confine, non. Hanno frontiera, che sono buoi e luce, notte e giorno, che accolgono l’essenza che si fa presenza, la presenza che diventa luogo di coesistenza dell’unicità e del doppio, dell’immobilità e della fuga, di armonia di istinto e riflessione, rappresentazione e celamento, concretezza ed astrazione, oblio e memoria. Stanze come quiete e ansia del pensiero: dove tutto accade sempre per la prima volta, dove tutto è sempre una ripetizione, celebrazione silenziosa dell’evento già trascorso, stupore per una nuova apparizione di sé a se stessa: il sé come specchio o velo di offuscamento.
Stanze come teatro dell’esistenza: un gioco delle parti: l’infanzia, la crescita, il confronto. Il riconoscimento, il ritrovamento. Poi un’altra fuga, il nascondimento tra le ombre, le penombre, il chiaroscuro, nella moltiplicazione delle figure.
Le stanze di Francesca Mele: un universo regolato da un tempo di memoria che non è solo ricordo. Non soltanto ricordo di un passato presente futuro, di tempo vissuto e tempo immaginato. Anche memoria del futuro, dunque: nel senso di una proiezione del presente che contiene il passato, la sua rielaborazione in immagini fluttuanti.
È memoria che si spande, che dilaga in quell’universo di tempo dilatato, dove tutto è accaduto o potrà accadere, dove nulla è accaduto né accadrà mai.
È memoria di un sogno ad occhi aperti e chiusi, quella che riempie le stanze di Francesca Mele.
È memoria di una realtà impalpabile, di una fantasia concreta, di un’immaginazione modellata in figura e forma.
È in un linguaggio di colori che hanno l’identica funzione delle parole, che come parole hanno riflessi, sfumature, che come parole evocano, risuonano, ludono, illudono, richiamano, affatturano. Si nutrono di ritmo.
Quella di Francesca Mele è una narrazione scritta col colore. Come ogni narrazione ha una trama, un intreccio, personaggi, partenze, ritorni. Qualche malinconia. Qualche rimpianto. Ma soprattutto: come una fiaba riporta sempre all’origine, al luogo da cui si è dipanato il filo del viaggio, a quell’infanzia che è stata il lievito, il nucleo di un destino , l’incipit di una storia da (ri) costruire, da (ri) trovare, da (ri) narrare all’infinito o almeno fino a quando non si avranno parole e colori per raccontare.
Stanze lontane dal vivere consueto, luogo separato, angolo segreto, misure di un’esistenza ri-creata, custodita dentro un simbolo.
Stanze in cui vive esclusivamente una dimensione della profondità, dell’essenziale, del senso dell’essere che si manifesta nella morbidezza delle forme, nel silenzio semanticamente pregnante delle atmosfere di smorzato chiarore, nello spazio che sfuma la dimensione orizzontale per concentrarsi in quella verticale, nella temporalità a spirale, avvolgente, stringente.
C’è la memoria al centro delle stanze di Francesca Mele, rappresentata da una figura memorante, da uno sguardo che attrae lì, al centro delle stanze, immagini rimaste in lontananza.
Lo sguardo richiama, ricompone. Salva.
Salva quelle immagini lontane dal gorgo dell’oblio.
M lo sguardo non ha possibilità di abbracciarle tutte; non può assorbire tutto l’orizzonte; non può ricomporre i frammenti di ogni giorno; non può contenere tutta la memoria.
Allora seleziona: elementi minimi, oggetti, contorni, ombre, profili, sensazioni, emozioni. Molti stupori. Qualche malinconia.
Le stanze di Francesca Mele sono lo spazio della coscienza. Ma anche il tempo della coscienza.
Spazio e tempo dove l’esperienza si fa nucleo, la sensazione si fa espressione, l’emozione diventa colore, il sentimento forma, le percezioni si articolano in struttura..
Nel nucleo, nell’espressione, nella forma, nel colore, nella struttura avviene la salvezza della memoria: avviene come consapevolezza di un gesto di autoscrutamento, autocoscienza, disvelamento, specularità, riconoscimento.
È questa memoria salvata che porta – offre, dona – conoscenza : quella conoscenza che è essenzialmente riconoscimento del sé attraverso l’elaborazione di conscio e inconscio, realtà e sogno, mithos e logos, dicibile e indicibile, profondità e superficie.
Stanze dove tutto è prossimo e distante, principio e fine, perdita e conquista, attesa e desiderio, visione e ricordo.
Ma soprattutto ricerca del senso che le stanze nascondono.
(Testo critico realizzato in occasione della mostra)