Giovanni Invitto
La pittura di Francesca Mele è la fenomenologia “in colore” della donna, nelle se varie età, nei suoi vari vissuti di dolore o di presumibile gioia, ma sempre nella sua assoluta solitudine, nel suo universo monadico che si colloca nello spazio del mito.È una pittura mitologica anche quando, e non solo nelle prime, sorprendenti, prove scolastiche, poggia lo sguardo sul nudo femminile, nella sua definitiva armonia e bellezza con un eros sotteso, strisciante ma mai violento e dirompente. Nelle sue tele si sgrana, come in un rosario, la fenomenologia del femminile che è mancanza, attesa stupore. È la bambina col nido nella coppa delle mani, è l’adolescente poggiata al muro che guarda e attende tra le ante della porta. Mani di bambina o di donna sono sempre una culla accogliente per la farfalla o per un dono visibile solo a lei e non a chi guarda. Sono anche il concavo in cui riposa il nulla. Un nulla che raramente porta, qui, ai lidi dell’angoscia e che è ritessuto con i colori forti che distraggono e che riempiono il nostro vissuto, ridando equilibrio, armonia, spazi di speranza.
Mani e braccia di donna si muovono e di duplicano sulla tela ora per suonare lievi strumenti o per abbracciare (abbracciarsi?) con affetto casto e totale. E che sia amore il cerchio di fuoco da cui lei esce o entra? Sì: ogni uscire è anche un rientrare ed ogni entrare è anche un uscire. Perché Eros, come dice Platone, non essendo immortale come gli dei né mortale come gli uomini, muore e rinasce su se stesso continuamente.
Non esiste femminile che non sia narrazione, mito, pittura: “Donne non si nasce ma si diventa” (Simone de Beauvoir); “Sono nata donna, ma devo ancora diventare quella donna che sono per natura” (Luce Irigaray).
La pittura di Francesca pare iniziare da una decostruzione, partendo dall’assunto dell’autrice delle Memorie di una ragazza perbene, componendo ciò che la donna è divenuta per costruzione culturale. Contemporaneamente va alla ricerca di quella donna che si è per natura ma che, poi, bisogna ancora diventare.
Insomma, quelle figure sono una elegia del femminile che conserva dell’elegiaco i toni della nostalgia, del fruire, della liricità. E le bende, da sempre collegate con chissà quanti sotterranei inconsci alle descrizioni di donna, qui diventano garze che velano e disvelano; che creano forme figure volti animali in un caleidoscopio che richiede pazienza e contemplazione assoluta.
Vedi e serpi che insidiano. O fissano, incantati dallo sguardo della giovane donna? È alla Donna che fu affidata la missione divina di vincere il serpe, la sua subdola violenza e devastazione morale. E il velo vola nel cielo, coprendo cattedrali non solo barocche, coprendo pleniluni e cortili.
Nelle mani della pittrice non ci sono veli pregiati o seta o trine, non c’è il pennello ma il panno, secolare umile tessuto con cui detergere sporcizia, macchie, sudori, lacrime, colori. È l’ultima produzione della pittrice che secerne figure e forme intorno alla dicotomia icasticamente definita dal suo conterraneo Carmelo Bene: genio e/o talento. Nel quadro, uno degli ultimi di Francesca, le donne si triplicano: la donna nuda che, di schiena si volta, seduta su un cavallo, forse di cartapesta, verso un’altra donna (o un uomo? O un androgino?) su altro animale da cui si stacca una maschera e, sullo sfondo, la pittrice, che appare nell’arco di una porta non barocca ma rinascimentale o neoclassica.
In mano non ha la tavolozza, ma un panno. Il panno che rende lo strumento pittorico riutilizzabile con una nuova materia per nuovi universi, per nuovi miti, per nuovi racconti affidati ad una tecnica oramai divenuta sangue e pelle dell’artista, in un felice e fecondo automatismo quasi psicoanalitico. Lacan: noi non parliamo, noi siamo parlati. Traslitteriamo: Francesca Mele non dipinge, è dipinta dai suoi quadri, dalla sua mano e dal suo pennello.
Si lascia narrare e continua da anni questa sua affabulazione colorata che ci dà l’essenza e la salvezza di donna. Banale dire Sherazade. Ma anche lei, dalle balugini dell’alba alle brume del tramonto va alla ricerca del suo io e lo insegue sulle tele, come in un pellegrinaggio nella Via Lattea che conduce a Santiago de Compostela.
Noi ci facciamo prendere per mano, lungo questo cammino, da questa artista, come succede da un po’ di anni, e ci lasciamo far portare come da un suo ippogrifo verso altezze oniriche che danno alla nostra esistenza sensi e colori di donna.